Statuti degli enti del Terzo settore: le attività svolte vanno ben definite

L’indicazione non può limitarsi alla pedissequa e meccanica riproposizione di quelle previste dal Codice: ciò, infatti, renderebbe indeterminato e non conoscibile l’oggetto sociale

Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, con nota del 12 aprile 2019, ha fornito alcuni chiarimenti sulle modalità secondo le quali gli enti del Terzo settore, anche di nuova costituzione, devono individuare statutariamente le attività di interesse generale indicate dal Dlgs 117/2017 (Codice del Terzo settore). In particolare, il Ministero ha sciolto il dubbio circa il se gli enti abbiano facoltà di inserire tutte le attività indicate nell’articolo 5 del Codice o se debbano, invece, limitarsi a indicare solo quelle ritenute più congrue rispetto agli scopi statutari e al campo di azione degli enti.

Innanzitutto, nella nota si precisa che lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale è uno degli elementi che, insieme alla finalità e all’assenza dello scopo di lucro, concorrono a contraddistinguere gli enti che rientrano nel perimetro del Terzo settore (con i connessi risvolti anche di ordine fiscale), per effetto della qualificazione conseguita attraverso l’iscrizione nel Registro unico nazionale (articoli 45 e seguenti, Dlgs 117/2017). In secondo luogo, il Ministero ricorda che il Registro svolge una duplice funzione: individuazione degli enti e garanzia della conoscibilità di atti e fatti rilevanti, attività svolte, risultati conseguiti, impiego delle risorse pubbliche e private acquisite.

Nell’atto costitutivo (di cui lo statuto è parte integrante) gli enti devono obbligatoriamente indicare sia l’attività di interesse generale assunta come proprio oggetto sociale sia le finalità solidaristiche e di utilità sociale perseguite. Sul punto, il Ministero sottolinea che, secondo quanto previsto dall’articolo 6 del Codice, ferma restando la prevalenza di quelle di interesse generale, gli enti del Terzo settore possono esercitare anche attività diverse da quelle elencate nell’articolo 5, a patto che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano comunque secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale.
Pertanto, l’individuazione di una o più attività di interesse generale non può consistere nel mero inserimento all’interno dello statuto “di un elenco di tutte le attività previste dall’articolo 5 o di un numero di esse tale da rendere indefinito – e come tale non conoscibile - l’oggetto sociale”. Senza dubbio, prosegue la nota, “la varietà dei possibili settori di attività individuati come di interesse generale testimonia della volontà del legislatore di garantire agli enti un’ampia autonomia nell’individuazione della/delle attività attraverso le quali, nel rispetto delle norme particolari che ne disciplinano l’esercizio, meglio conseguire le finalità associative in armonia con la natura, le caratteristiche, la vocazione dell’ente”.
Tuttavia, questa autonomia non può tradursi in una sostanziale elusione degli obblighi di trasparenza e conoscibilità nei confronti dei terzi o del diritto degli associati (anche futuri) “di aderire a una compagine di cui siano chiaramente individuate (e ragionevolmente collegate tra loro) attività e finalità”.
Naturalmente, conclude il Ministero, gli enti potranno in ogni momento modificare il proprio oggetto sociale con l’inserimento di nuove attività o l’eliminazione di quelle che non intendono più svolgere. In ogni caso, però, “ciò dovrà essere il frutto di una precisa scelta degli associati, da assumersi alla luce e nel rispetto delle regole organizzative di cui l’ente si è dotato secondo caratteristiche di democraticità e trasparenza”.

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