RIFORMA DEL LAVORO

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Jobs Act: come cambiano contratti e lavoro
Jobs act: il riordino dei contratti
Lavoro accessorio
Demansionamento
Conciliazione dei tempi di vita e lavoro
Contratto a tutele crescenti
Licenziamenti collettivi
Ammortizzatori sociali
Assunzioni: guida al bonus per datori di lavoro
Assunzioni agevolate: gli sgravi contributivi validi dal 2015
Licenziamento e conciliazione: le novità del Jobs Act
Guida al contratto indeterminato a tutele crescenti
Congedo parentale fino a 12 anni nel Jobs Act





Jobs Act: come cambiano contratti e lavoro

I 4 decreti del Governo in attuazione del Jobs Act: contratto a tutele crescenti e nuovi ammortizzatori al via, approvati il riordino dei contratti e la nuova flessibilità su conciliazione lavoro-famiglia.
Riforma dei contratti (con la nuova disciplina che apre al demansionamento), via libera definitivo al nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (con le novità in materia di licenziamenti) e ai nuovi ammortizzatori, misure di flessibilibità su conciliazione tempi lavoro-famiglia, a partire da congedi di maternità, paternità e parentali: il Consiglio dei Ministri di venerdì 20 febbraio ha approvato in un solo colpo ben quattro decreti attuativi del Jobs Act, la legge delega di Riforma del Lavoro. Due sono quelli che erano stati approvati a fine dicembre, su contratto a tutele crescenti e nuovi ammortizzatori, che ora hanno terminato il breve passaggio per il parere in Commissione e diventano, quindi, operativi (si attende solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale). Gli altri due, invece, rappresentano l’esercizio di nuove nuove deleghe.

Jobs act: il riordino dei contratti
Il decreto legislativo con il “Testo organico semplificato delle tipologie contrattuali e revisione della disciplina delle mansioni” è forse il provvedimento più atteso. Questo elimina quasi definitivamente i contratti di collaborazione a progetto, che a partire dal primo gennaio 2016 si trasformeranno in contratti a tempo indeterminato, restano alcuni tipi di collaborazione coordinata e continuativa, legati a particolari settori (ad esempio i call center) o tipologie professionali (i professionisti iscritti agli Ordini). In estrema sintesi, la regola è la seguente: quando il decreto entrerà definitivamente in vigore (fra un paio di mesi), le imprese non potranno più stipulare nuovi contratti di collaborazione a progetto, mentre quelli in essere proseguiranno fino alla loro scadenza. Poi, dall’1 gennaio 2016, i contratti di collaborazione «con contenuto ripetitivo ed etero-organizzati dal datore di lavoro» dovranno diventare rapporti a tempo indeterminato ai quali si applicheranno quindi le nuove tutele crescenti.
Spariscono il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro e il job sharing. Resta sostanzialmente immutato, rispetto al decreto Poletti del 2014, il contratto a tempo determinato (che quindi è applicabile per 36 mesi, tre anni, senza causale). È ampliato il contratto di somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing), che non necessita più di causali e si può stipulare con un limite fissato al 10% del totale dei contratti a tempo indeterminato esistenti in azienda.
Novità sul part-time: in mancanza di regole precise fissate dai contratti collettivi, vengono stabilite per legge le modalità applicative: il datore di lavoro può chiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare, le parti possono pattuire clausole elastiche e flessibili in materia ad esempio di orario di lavoro. Viene infine previsto per il lavoratore il diritto a chiedere il part-time per necessità di cura connesse a malattie gravi o in alternativa al congedo parentale.

Lavoro accessorio: elevato a 7mila euro il tetto massimo dell’importo, viene introdotta la tracciabilità con tecnologia sms come per il lavoro a chiamata.
Confermato l’impianto generale dell’apprendistato, con alcune semplificazioni (ad esempio sull’apprendistato di primo livello per il diploma e la qualifica professionale, con una riduzione di costi per le imprese).


Demansionamento
La nuova discplina delle mansioni è sempre contenuta nel decreto sul riordino dei contratti. In pratica, come previsto dalla legge delega, si introduce la possibilità di demansionamento del lavoratore (oggi vietata dallo Statuto dei Lavoratori). In particolare, in presenza di ristrutturazione aziendale e in altri casi individuati dai contratti collettivi, l’impresa può modificare le mansioni del dipendente, limitatatamente a un livello e senza diminuire lo stipendio. È anche possibile contrattare individualmente con il dipendente (in sede protetta, quindi attraverso una specifica procedura) modifica delle mansioni e del livello di inquadramento (e di retribuzione), «nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita

 

Conciliazione dei tempi di vita e lavoro
Un’altra delega interviene sui congedi di maternità, paternità e congedi parentali e introduce novità in materia di telelavoro e donne vittime di violenza di genere. Per quanto riguarda i congedi di maternità, diventa più flessibile la possibilità di godere dei giorni di astensione obbligatoria non goduti in caso di parto prematuro, che possono essere fruiti successivamente, anche superano il limite dei cinque mesi. Prevista la possibilità, per la madre, di sospendere la maternità in caso di ricovero del neonato (previo certificato medico che attesti la buona salute della madre).
Il congedo di paternità è esteso a tutti i lavoratori (ora è previsto solo per i dipendenti): anche gli autonomi quindi possono utilizzarlo, nel caso in cui la madre non usufruisca del congedo di maternità.
Il congedo parentale è esteso ai primi 12 anni di vita del bambino (dagli attuali otto). Ampliati anche il congedo parzialmente retribuito al 30%, dagli attuali tre anni a sei anni di vita del bambino, e quello non retributo, fino a 12 anni di vita del bambino (dagli attuali sei). Infine, sono introdotte nuove norme per tutelare la genitorialità in caso di adozioni e affidamenti prevedendo estensioni di tutele già previste per i genitori naturali.
In tema di telelavoro, previste agevolazioni per i datori di lavoro privati che lo concedano andando incontro alle esigenze di cure parentali dei dipendenti.
Infine, è previsto un nuovo congedo, di tre mesi, per le donne vittime di violenza di genere e inserite in percorsi di protezione debitamente certificati. La lavoratrice (dipendente o collaboratirce a progetto) mantiene l’intera retribuzione, la maturazione delle ferie e degli altri istituti connessi, e ha il diritto di chiedere la trasformazione del contratto in part-time.
 

 

Sul contratto a tutele crescenti non ci sono novità rispetto al testo approvato a fine dicembre, semplicemente è terminato l’iter del decreto che ora per l’operatività attende solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Dal momento dell’entrata in vigore, le aziende potranno iniziare ad applicare il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, con la nuova disciplina in materia di licenziamenti. Molto sinteticamente, il reintegro nel posto di lavoro resta solo per i licenziamenti nulli o disciminatori, mentre per i licenziamenti economici e disciplinari è sostituito con un’indennità commisurata all’anzianità di servizio: due mensilità per ogni anno di lavoro, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità (nelle piccole imprese, un mese per ogni anno di anzianità, con un minimo di due e un massimo di sei mensilità). Introdotta una nuova procedura di conciliazione, che evita un successivo passaggio in giudizio (il lavoratore accetta un risarcimento, pari a un mese per ogni anno di anzianità, con un minimo di due e un massimo di 18 mensilità, del tutto esente da tasse e contributi, e in cambio si impegna a non fare ricorso).

Licenziamenti collettivi
La nuova disciplina sui licenziamenti collettivi è anch’essa contenuta nel decreto sul nuovo contratto a tutele crescenti e prevede, per gli assunti a tutele crescenti, l’indennizzo al posto del reintegro con le stesse modalità previste dai licenziamenti individuali (due mensilità per ogni anno di anzainità, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità).
 
Ammortizzatori sociali
Anche quello sugli ammortizzatori sociali è il decreto approvato a fine dicembre, che ora ha terminato l’iter di consultazione alle camere e sarà quindi operativo con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Introduce la NASpI, nuova assicurazione sociale per l’impiego che sostituisce ASpI e mini ASpI, per chi perde il lavoro a partire dal primo maggio 2015, abbia almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi quattro anni e almeno 18 giornate effettive di lavoro negli ultimi 12 mesi. La somma riconosciuta dipende dalla retribuzione, non può superare i 1300 euro al mese, si riduce del 3% dopo i primi quattro mesi. Dura 24 mesi (che scendono a 18 dal 2017).
Arriva anche, in via sperimentale per il 2015, l’ASDI, ovvero l’assegno di disoccupazione per chi non trova lavoro dopo che scede la NASpI. Dura ulteriori sei mesi, è pari al 75% della NASpI.
Infine, introdtta la Dis-col, ovvero la disoccupazione per i collaboratori coordinati e a progetto che abbiano almeno tre mesi di contribuzione nel periodo che va dal primo gennaio dell’anno precendete alla perdita del lavoro alla data in cui interviene la disoccupazione. Dura la mssimo sei mesi, il trattamento è rapportato al reddito.
 
Guida alle nuove assunzioni agevolate e allo sgravio contributivo previsto per il 2015 dalla Legge di Stabilità.
La Legge di Stabilità 2015 (articolo 1, comma 118) ha introdotto nuove assunzioni agevolate, ovvero degli sgravi contributivi per i datori di lavoro privati (escluso il settore agricolo) che assumono con contratto di lavoro a tempo indeterminato nel 2015. Perché il bonus contributivo diventi operativo a tutti gli effetti è attesa la Circolare INPS.
Tempo indeterminato
Per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal 1° gennaio al 31 dicembre 2015 è previsto uno sconto dei contributi INPS per una durata massima di tre anni (36 mesi) per un totale massimo di 8.060 all’anno. Il bonus sarà fruibile anche da parte dei datori di lavoro che intendano stabilizzare lavoratori già presenti in azienda, ovvero procedano con la trasformazione di un contratto di lavoro a termine o a progetto in tempo indeterminato.
Contributi e assunzioni escluse
Da precisare che lo sgravio con comprende e qundi lascia a carico del datore:
• il TFR;
• i premi e i contributi INAIL.
Il bonus non spetta in caso di assunzioni di lavoratori apprendisti e domestici e non è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente.
Settore agricolo
Per il settore agricolo verrà istituito un sistema “a domanda”, essendo stato lo stanziamento limitato a:
• 2 milioni di euro per il 2015;
• 15 milioni per gli anni 2016 e 2017;
• 11 milioni per il 2018;
• 2 milioni di euro per il 2019.
Lavoratori destinatari
Il bonus potrà essere fruito dal datore di lavoro a patto che assuma un lavoratore che:
• non abbia avuto nei 6 mesi precedenti all’assunzione rapporti di lavoro a tempo indeterminato, presso qualsiasi datore;
• non abbia avuto nei 3 mesi precedenti il 1° gennaio 2015 un contratto a tempo indeterminato con lo stesso datore che realizza l’assunzione agevolata, anche attraverso aziende collegate.

Assunzioni agevolate: gli sgravi contributivi validi dal 2015
Sgravi contributivi alle imprese per assunzioni a tempo indeterminato: a confronto le nuove agevolazioni della Legge di Stabilità 2015 con quelle della Legge 407/1990 e della Riforma del Lavoro Fornero per i disoccupati.
La Legge di Stabilità introduce sgravi contributivi per i datori di lavoro privati (escluso il settore agricolo) che assumono con contratto di lavoro a tempo indeterminato nel 2015. La normativa, tuttavia, prevede la soppressione di precedenti formule di assunzione agevolata, in particolare quelle previste dalla Legge 407/1990 per i disoccupati.Vediamo dunque nel dettaglio cosa prevede la nuova disciplina e che cosa invece cambia, anche rispetto agli incentivi previsti dalla Riforma del Lavoro Fornero (Legge 92/2012).


Assunzioni agevolate 2015

Secondo la nuova Legge di Stabilità, per assunzioni con contratto a tempo indeterminato decorrenti dal 1 gennaio 2015 e stipulate entro il 31 dicembre 2015, i datori di lavoro sono esonerati dal versamento dei contributi previdenziali INPS, fino a 36 mesi, per non oltre 8.060 euro l’anno (esclusi dall’agevolazione premi e contributi INAIL). Il beneficio si applica per nuovi assunti senza contratto stabile da almeno sei mesi. In sintesi:
• assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori non occupati con tale contratto nei 6 mesi precedenti,
• sgravio del 100%,
• Premio INAIL dovuto,
• Agevolazioni per assunzioni da gennaio e stipulate entro dicembre 2015.
Incentivi soppressi
Da gennaio 2015 sono soppresse le agevolazioni contributive della Legge 407/1990, che all’articolo 8 comma 9 prevedeva agevolazioni contributive per i datori di lavoro (imprese, enti pubblici economici, consorzi di imprese e datori iscritti agli albi professionali) che assumevano a tempo indeterminato, anche part-time, lavoratori disoccupati da almeno 24 mesi, sospesi dal lavoro o in CIG. Le agevolazioni (compresa riduzione del premio INAIL) consistevano in una riduzione dei contributi per 36 mesi, pari al 50% per tutti i datori di lavoro; 100% per imprese operanti nel Mezzogiorno e imprese artigiane. In sintesi:
• assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori con almeno 24 mesi di disoccupazione,
• sgravio del 50% per tutti (100% per imprese del Mezzogiorno e artigiane),
• riduzione premio INAIL,
• agevolazioni per assunzioni senza limiti temporali,
• Se l’azienda ha effettuato licenziamenti per giustificato motivo oggettivo o sospensioni e intende assumere nuovo personale per pari unità, solo se sono trascorsi 6 mesi dalla cessazione dei precedenti rapporti di lavoro.
• Altri sgravi
• In realtà, anche la Riforma del Lavoro Fornero (Legge 92/2012) ha introdotto una formula di assunzione agevolata per i disoccupati da almeno 12 mesi: lo sgravio contributivo si applica in questo caso per assunzioni di donne di qualsiasi età e lavoratori di oltre 50 anni. La riduzione dei contribuiti INPS è al 50% per 36 mesi, in un arco di tempo di 12 o 18 mesi (contratto determinato o indeterminato).
• Mentre finora le due opzioni per assumere disoccupati potevano accavallarsi (Legge 407 e Legge Fornero) – tanto da portare l’INPS a chiarire come fosse da applicare in questi casi quella valevole per 24 mesi, eventualmente utilizzando entrambe in alcune circostanze (Circolare 111/2013) - con la Legge di Stabilità e la soppressione della 497 il “problema” non si pone più.
• Per approfondimenti: Legge di Stabilità 2015; Legge 407/1990; Legge 92/2012.


Licenziamento e conciliazione: le novità del Jobs Act

Il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti previsto dal Jobs Act e oggetto del primo decreto legislativo attuativo della delega del governo Renzi, cambia profondamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e quindi il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, per i nuovi assunti e introduce una nuova possibilità di conciliazione. Esaminiamo con precisione le nuove disposizioni in materia di licenziamenti, anche evidenziando i principali punti critici.

Diritto al reintegro
Il diritto al reintegro nel posto di lavoro resta nei seguenti casi (in base agli articoli 2 e 3 del decreto):
• licenziamento discriminatorio o riconducibile ad altri casi di nullità;
• licenziamento intimato in forma orale;
• licenziamento per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa) per il quale sia dimostrata in giudizio «l’insussistenza del fatto materiale».
Per il licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, e in tutti gli altri casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, decade il diritto al reintegro previsto dall’articolo 18, sostituito dall’indennizzo economico.

Il nuovo licenziamento per motivi disciplinari
Le novità, rispetto alla Riforma Fornero (legge 92/2012), che già aveva riformato l’articolo 18, sono due: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (motivi economici) non prevede più in nessun caso il reintegro. Il diritto a tornare nel posto di lavoro viene fortemente limitato anche nel caso dei licenziamenti disciplinari. Qui, è già iniziato il dibattito giurisprudenziale sul preciso significato da dare all’espressione utilizzata (insussistenza del fatto materiale). In linea generale, significa che se la motivazione addotta dall’azienda (che come è noto deve essere esplicitata in forma scritta) si rivela inesistente (esempio: si contesta un fatto che in realtà non si è verificato), il lavoratore ha diritto al reintegro. Questo, indipendentemente da qualsiasi valutazione del giudice sulla sproporzione del licenziamento.
l problema è che la formulazione della norma potrebbe rendere licenziabile il lavoratore per un fatto che sussiste, ma per il quale il contratto non prevede il licenziamento. In parole semplici, cosa succede se un dipendente commette effettivamente un fatto materiale, che però non è illecito, o è sproporzionato rispetto al provvedimento di licenziamento? Perde il diritto al reintegro? Oppure, deve valere un’interpretazione più estensiva per cui l’azienda non può comunque effettuare un licenziamento per motivazioni che non sono esplicitamente previste dalle leggi e dai contratti di riferimento? Il dibattito è aperto. Ricordiamo che tutto questo vale solo per gli assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti, gli altri contratti a tempo indeterminato continuano ad applicare l’articolo 18.

Licenziamento discriminatorio o nullo
Per quanto riguarda le altre fattspecie sopra citate, molto brevemente, il licenziamento discriminatorio è definito dall’articolo 3 della legge 108/1990, e riguarda ad esempio i casi in cui avvenga per motivi legati a credo politico o fede religiosa, appartenenza ad un sindacato o partecipazione attività sindacali, partecipazione a uno sciopero, discriminazioni di natura razziale, di lingua o di sesso. Gli altri casi di nullità del licenziamento sono previsti dal comma 1 dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: matrimonio, gravidanza, diritti legati a maternità e paternità (congedi parentali), violazione dell’articolo 1345 del codice civile (in base al quale sono nulli i contratti in cui le parti agiscono esclusivamente per un motivo illecito): quest’ultima è una fattispecie complessa, su cui comunque esiste ampia giurisprudenza.

Nuova procedura di conciliazione
Un’altra novità introdotta dalla riforma è rappresentata dalla nuova procedura di conciliazione, prevista dall’articolo 6 del decreto. Il datore di lavoro può offrire al dipendente un’indennità risarcitoria pari a una mensilità per ogni anni di servizio, in misura comunque non inferiore a due mensilità e non superiore a 18. Questa nuova forma di conciliazione è fiscalmente incentivata in due modi: l’indennità non rileva ai fini dell’imponibile IRPEF del lavoratore (quindi, è detassata), e non è assoggettata a contribuzione previdenziale. Non solo: il datore di lavoro è tenuto a pagarla mediante assegno circolare (che garantisce la totale sicurezza del pagamento). Se il lavoratore accetta, rinuncia a impugnare il licenziamento (anche se aveva già iniziato una procedura in tal senso).

Più facile il licenziamento per riorganizzazione aziendale
con la Riforma del Lavoro e l’entrata in vigore del Jobs Act sarà più facile licenziare per motivi economici: i dettagli.

Dovrebbero entrare in vigore a partire da gennaio 2015 le nuove regole introdotte nel mercato del lavoro dalla Riforma del Lavoro del governo Renzi e più in particolare dal Jobs Act. Con esso arriveranno anche i nuovi contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti che prevedono, tra le altre novità, la possibilità per gli imprenditori di licenziare i propri dipendenti per motivi economici, limitandosi al solo rischio di pagamento di un indennizzo in caso di impugnazione.

Licenziamenti economici
I caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo (crisi o anche solo semplice riorganizzazione aziendale) non sarà più possibile – in caso di impugnazione giudiziaria – che scatti la una riassunzione. Inoltre, in questa fattispecie di licenziamenti economici potrebbe rientrare anche lo scarso rendimento.

Indennizzo
Se un licenziamento economico viene impugnato, è previsto in sede giudiziale – in caso di illegittimità appurata – un indennizzo economico pari a 1,5 mensilità per ogni anno di lavoro del dipendente, con un tetto massimo di 36 mensilità. Nel caso in cui invece le due parti raggiungano un accordo in sede di conciliazione, l’indennizzo non potrà essere superiore ad una mensilità per ogni anno di lavoro, fino a un tetto di 24 mensilità.

Reintegro
Rimane la possibilità per il giudice di stabilire il reintegro del lavoratore, ma solo per i licenziamenti nulli, tra i quali rientrano in pratica soltanto quelli discriminatori e solo alcune «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». La discrezionalità del giudice è però ridotta al minimo: per equiparare il licenziamento disciplinare a quello discriminatorio, infatti, sarà necessario dimostrare che la cessazione del rapporto di lavoro imposta ha una natura calunniosa; se c’è insufficienza di prove il giudice non può comunque disporre la reintegra nel posto di lavoro. La contestazione, inoltre, deve avere per oggetto un reato grave.
Micro e PMI
Spariscono infine le distinzioni, a livello di tutele, basate sulla dimensione aziendale: che si tratti di impresa con meno di 15 dipendenti o di una grande multinazionale il nuovo contratto a tutele crescenti garantisce le stesse regole e tutele.
Mini Guida al nuovo contratto indeterminato a tutele crescenti del Jobs Act: nuove regole su reintegro da articolo 18, PMI sotto i 15 dipendenti, licenziamenti collettivi e contratto di ricollocazione.
Le PMI che superano la soglia dei 15 dipendenti, effettuando nuove assunzioni con il contratto indeterminato a tutele crescenti previsto dalla prima delega del Jobs Act esercitata dal Governo, continuano a non applicare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori a tutti gli assunti. È una delle misure della delega sul contratto indeterminato a tutele crescenti di maggior interesse per le PMI. Il decreto è stato approvato dal Consiglio dei Ministri dello scorso 24 dicembre (insieme a quello sulla nuova ASpI, anch’esso in esecuzione del Jobs Act).
Il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti si applica a partire dal primo gennaio 2015, sostituisce per le nuove assunzioni il vecchio tempo indeterminato (che resta inalterato per i contratti già in essere), e prevede sostanzialmente novità in materia di licenziamento, allentando di molto i vincoli dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il diritto al reintegro per il lavoratore ingiustamente licenziato, in pratica, sparisce per tutti i licenziamenti di tipo economico (giustificato motivo oggettivo) e disciplinare (giustificato motivo soggettivo o giusta causa), mentre resta in tutti i casi di licenziamento discriminatorio.

Giustificato motivo e giusta causa
In tutti i casi di licenziamento non discriminatorio, se il giudice stabilisce l’illegittimità, al posto del reintegro, è prevista un’indennità economica, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a due mensilità (calcolate sull’ultima retribuzione) per ogni anno di servizio. La somma deve comunque essere compresa fra quattro e 24 mensilità (due anni). Questo vale non solo per il giustificato motivo oggettivo (motivazione economica, in genere dovuta a ristrutturazione aziendale), ma anche per il giustificato motivo soggettivo e la giusta causa (motivazione disciplinare).
Attenzione: in tutti i casi sopra citati resta però il diritto al reintegro se il giudice stabilisce l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. In pratica, sottolinea il decreto, se il fatto contestato è insussistente, non viene effettuata alcuna valutazione rispetto alla sproporzione del licenziamento. Semplicemente, il giudice annulla il provvedimento, e:
«Condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c, del decreto legislativo 181/2000».
Insomma, restano tutte le tutele attualmente previste in caso di licenziamento illegittimo (reintegro e risarcimento). L’indennità risarcitoria non può superare le 12 mensilità.

PMI sotto i 15 dipendenti
Tutto questo vale solo per le imprese sopra i 15 dipendenti, sotto questa soglia continua a non essere previsto il reintegro (tranne che nel caso dei licenziamenti discriminatori). Nelle piccole imprese la misura dell’indennità in caso di licenziamento ingiustificato è dimezzata (quindi è pari a una mensilità per ogni anno di lavoro), e non può comunque superare le sei mensilità. Per le PMI c’è anche un’altra previsione importante nel decreto: l’articolo 1, comma 2, prevede che, dal primo gennaio 2015, quando superano la soglia dei 15 dipendenti (sopra la quale, come è noto, si applica l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori), effettuando assunzioni a contratto indeterminato a tutele crescenti, le nuove regole sulla disciplina dei licenziamenti continuano a valere anche per i vecchi assunti. In parole semplici, ai vecchi assunti a tempo indeterminato delle PMI sotto i 15 dipendenti che superano questa soglia, si applicano in materia di licenziamento le stesse regole del contratto indeterminato a tutele crescenti, non quelle del “normale” tempo indeterminato.

Licenziamento discriminatorio
Per questa fattispecie non cambia nulla, resta in tutti i casi il reintegro, a prescindere dalle dimensioni aziendali. Il reintegro continua a essere previsto anche in tutti i casi di nullità del licenziamento previsti dalla legge, ai caso di licenziamento intimato in forma orale. Se, in seguito al provvedimento di reintegro stabilito dal giudice, il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, il rapporto di lavoro è risolto. Questa non vale nel caso in cui il dipendente abbia già espresso, nei termini previsti, la volontà di sostituire il reintegro con l’indennità risarcitoria, che è pari a 15 mensilità. Il lavoratore di cui viene ordinato il reintegro ha anche diritto a un’indennità che non può essere inferiore a cinque mensilità.

Vizi formali e procedurali
Al di fuori del caso, sopra citato, in cui il licenziamento sia comunicato solo verbalmente (nel quale è previsto il reintegro), se ci sono altri vizi di forma o procedura (violazione dei requisiti di motivazione previsti da articolo 2, comma 2, legge 604/1966, o articolo 7 legge 300/1970), il rapporto di lavoro è comunque estinto, ma il giudice condanna l’azienda al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a una mensilità per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a due e non superiore a 12 mensilità (a meno che non venga accertata la sussistenza di altre tutele previste dalla legge).

Revoca del licenziamento o conciliazione
Se entro 15 giorni dall’impugnazione del licenziamento il datore di lavoro revoca il provvedimento, il rapporto di lavoro viene ripristinato senza soluzione di continuità. L’articolo 6 del decreto offre poi una nuova possibilità di conciliazione: al momento del licenziamento, il datore di lavoro può offrire un risarcimento pari a una mensilità per ogni anno di servizio, che deve essere compreso fra due e 18 mensilità, che non costituisce reddito imponibile ai fini IRPEF e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Se il lavoratore accetta, il rapporto di lavoro è definitivamente concluso e il licenziamento non è più impugnabile.

Licenziamento collettivo
Tutte le nuove regole sui licenziamenti previste dal nuovo contratto a tutele crescenti sono valide anche nei caso di licenziamento collettivo, in deroga quindi alle procedure previste dalla relativa legge (223/1991), in base alle quali in questi casi è comunque necessario un accordo sindacale. L’articolo 10 del decreto stabilisce che, se il licenziamento collettivo è intimato senza l’osservanza della forma scritta, vale il reintegro. In tutti gli altri casi, invece, si applicano le indennità economiche previste per i licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo, giusta causa. In pratica, convergono le procedure per licenziamenti individuali e collettivi.

Contratto di ricollocazione
In tutti i casi di licenziamento illegittimo, il lavoratore (che non è stato reintegrato, ma ha ricevuto l’indennità descritta precedentemente) ha diritto di ricevere dal Centro per l’impiego territorialmente competente un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione. Presentando questo voucher a un’agenzia per il laovro, pubblica o privata, ha diritto al contratto di ricollocazione, che prevede:
• assistenza appropriata nella ricerca di nuova occupazione;
• diritto del lavoratore alla realizzazione, da parte dell’agenzia, di iniziative di ricerca, addestramento, formazione o riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle capacità del lavoratore e alle condizioni del mercato del lavoro nella zona ove il lavoratore è stato preso in carico;
• dovere del lavoro di cooperare con l’agenzia.
L’agenzia incasserà l’ammontare del voucher, proporzionato al profilo di occupabilità del lavoratore, solo nel caso in cui il lavoratore trovi un nuovo impiego. (Fonte: schema di Dlgs sul contratto indeterminato a tutele crescenti)
I genitori possono chiedere il congedo parentale nei primi 12 anni di vita del figlio, non più solo nei primi otto, e il congedo a ore può essere utlizzato anche se non è previsto dal contratto collettivo di riferimento.
La novità più rilevante in materia di congedo parentale introdotta dal decreto sulla conciliazione dei tempi lavoro-famiglia attuativo del Jobs Act è che i genitori possono chiederlo nei primi 12 anni di vita del figlio e non più nei primi otto anni. Ma ci sono anche altre modifiche che, ad esempio, codificano il diritto al congedo parentale a ore, mettendo regole precise, anche nei casi in cui non ci siano previsioni specifiche nei contratti collettivi nazionali di lavoro o in quelli decentrati o aziendali. Vediamo in sintesi come cambia il congedo parentale in base al decreto, che come è noto introduce misure di maggior flessibilità anche per quando riguarda il congedo di maternità obbligatorio e la possibilità per il padre di chiederlo in alternativa alla madre.

Congedo parentale fino a 12 anni
La lettera a del comma 1 dell’articolo 7 del decreto sui tempi di conciliazione lavoro-famiglia modifica il comma 1 del’articolo 32 del Dl 151/2001 ampliando la possibilità di chiedere il congedo parentale ai primi 12 anni di vita del figlio, dai precedenti otto. Ricordiamo che il congedo parentale prevede la retribuzione al 30% dello stipendio, può arrivare complessivamente a dieci mesi cumulando i periodi presi dai due genitori (elevabile a 11 se il padre prende almeno tre mesi), con un tetto di sei mesi per la madre e di sette per il padre (se c’è un solo genitore, può prendersi tutti i dieci mesi).

Congedo parentale a ore
La successiva lettera b dell’articolo 7 introduce invece il comma 1-ter al medesimo articolo 32 del Dl 151/2001, prevedendo il congedo parentale a ore anche nei casi in cui non ci sia regolamentazione specifica nel contratto nazionale o aziendale. La norma stabilisce che ciascun genitore può sempre scegliere di prendere il congedo parentale a ore piuttosto che su base giornaliera. La fruizione su base oraria è consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale. Da sottolineare, tuttavia, che non si può cumulare il congedo a ore con permessi o riposi. Prima, la fruizione su base orario del congedo parentale era demandata alla contrattazione collettiva (comma 1- bis dell’articolo 32), quindi in pratica questo diritto non era esercitabile in mancanza di riferimenti nel contratto.
Il genitore deve comunicare all’azienda l’intenzione di andare in congedo parentale con l’anticipo previsto dal contratto, e comunque con un termine di preavviso non inferiore a cinque giorni indicando l’inizio e la fine del periodo di congedo: anche questa è una novità, prima il preavviso minimo era di 15 giorni. Se il congedo parentale è su base oraria, il preavviso minimo è invece di due giorni.

Prolungamento del congedo parentale
Anche il prolungamento del congedo parentale che i genitori possono prendere nel caso in cui il figlio sia portatore di handicap passa ai primi 12 anni di vita del bambino, dai precdenti otto: viene modificato l’articolo 33 del Dl 151/2001. Ricordiamo che si tratta di un congedo che può durare fino a tre anni (compresi i dieci mesi ordinari).

Trattamento economico
Per quanto riguarda il trattamento economico, la retribuzione al 30% che prima era assicurata solo in caso di godimento nei primi tre anni di vita del bambino viene ora portata a sei anni. Decade la norma in base alla quale, dopo questo periodo (i primi sei anni del figlio) il diritto successivi in caso di reddito inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione (in pratica viene abloito il comma 3 dell’articolo 34 del Dl 151/2001).

Adozione o affidamento
Le stesse modifiche valgono anche in caso di adozione o affidamento.

L’alternativa del part-time
Ricordiamo infine che una novità in materia di congedo parentale è inserita anche nel decreto sul Riordino dei Contratti attuativo del Jobs Act, che consente ai genitori di chiedere il part-time in alternativa al congedo parentale, per un periodo analogo, al termine del quale l’orario torna a tempo pieno.

Part-time: alternativo al congedo parentale
I genitori possono chiedere il lavoro part-time con una riduzione massima di orario del 50% in luogo del congedo parentale per un periodo di tempo corrispondente: la Riforma dei Contratti del Jobs Act.
La riforma dei contratti approvata dal Governo in esercizio della delega del Jobs Act introduce nuovi strumenti di conciliazione lavoro famiglia: entrambi i genitori possono chiedere al posto del congedo parentale la trasformazione temporanea del contratto di lavoro in part-time, ossia a tempo parziale. Lo prevede il comma 7 dell’articolo 6 del decreto approvato il 20 febbraio dal Consiglio dei Ministri.

Scelta del part-time
Ecco come funziona: il lavoratore può chiedere, per una sola volta, la trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time, in luogo del congedo parentale, per un periodo di tempo corrispondente e una riduzione di orario non superiore al 50%. Il congedo parentale, regolamentato dagli articoli 32 e seguenti del Dlgs 151/2001 (il testo unico dei diritti a sostegno della genitorialità dei lavoratori), può durare per i due genitori al massimo 10 mesi, con un tetto di 6 mesi per ciascuno di essi. Se ne deduce che i limiti temporali di questa alternativa: 10 mesi complessivi da dividere fra i due genitori, con limite di 6 ciascuno.

Conciliazione lavoro-famiglia
Un altro dei decreti approvati dal Governo in attuazione del Jobs Act, quello sulla conciliazione dei tempi lavoro-famiglia, prevede una serie di novità sul congedo parentale che hanno impatto anche sulla norma relativa alla possibilità alternativa di scegliere il part-time. In particolare, il congedo parentale, prima limitato ai primi 8 anni di vita del bambino, si può chiedere fino al compimento dei 12 anni del figlio. Quindi, anche il part-time alternativo può essere utilizzato nei primi 12 anni di vita del figlio.

Priorità
C’è poi un’altra disposizione, contenuta nel comma 5 del decreto, in base alla quale il lavoratore o lavoratrice con un figlio convivente di età superiore a 13 anni, o portatore di handicap ai sensi dell’articolo 3 della legge 104 del 1992, hanno la priorità nella trasformazione del contratto da tempo pieno a part-time. Anche questo, dunque è una nuova possibilità di utilizzo del part-time per andare incontro a particolari esigenze legate alla genitorialità.
Il decreto prevede anche che, in tutti i casi in cui il lavoratore abbia trasformato il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time, ha il diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo pieno per l’espletamento delle stesse mansioni o di quelle equivalenti a quelle oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale.
Questo disposizione non ha effetto sulla norma che prevede il part-time in luogo del congedo parentale, perché in quel caso la trasformazione a tempo parziale deve durare solo per il periodo corrispondente al congedo parentale (quindi per dieci mesi complessivi per i due genitori). Ma, negli altri casi in cui il lavoratore chiede il part-time per esigenze familiari, scatta invece questo diritto di precedenza.
Il decreto prevede il diritto di chiedere prioritariamente il part-time per una serie di esigenze di carattere familiare legate non solo alla presenza di figli: lavoratori affetti da patologie oncologiche o da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti che riducano la capacità lavorativa, eventualmente anche a causa degli effetti invalidanti delle terapie salvavita, patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative riguardanti il coniuge, i figli o i genitori, necessità di assistenza di una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa, alla quale è stata riconosciuta una percentuale di invalidità pari al 100%.

Congedo parentale: a ore, durata e indennità
Congedo parentale: normativa completa con le modalità di fruizione anche su base oraria, durata di astensione per dipendenti e autonomi, diritto all’indennità economica.
In Italia il congedo parentale è disciplinato dagli artt. 32-38 del DLgs 151/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di sostegno della maternità e paternità), integrati dall’art. 1, co. 339, L. 228/2012 in recepimento della Direttiva 2012/18 UE, che ha chiesto a Stati membri e parti sociali di accordare il congedo parentale a tempo pieno, parziale, in modo frammentato o in forma di credito di tempo, tenendo conto delle esigenze di datori di lavoro e lavoratori.

Congedo a ore
Nonostante la norma sulla conciliazione lavoro e famiglia sia in vigore, l’applicazione del congedo parentale a ore in Italia è in stallo. Secondo l’art. 1, co. 339, L. 228/2012 (modificando l’art. 32, D.Lgs. 151/2001), “la contrattazione collettiva di settore stabilisce le modalità di fruizione del congedo di cui al comma 1 su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa”.
Spetta dunque alle associazioni di categoria portare a termine la concertazione per applicare l’opzione, ma il confronto si è arenato sull’interpretazione dell’espressione “contrattazione collettiva di settore”: il settore inteso dal Legislatore si riferisce a quello specifico produttivo o a quello generico del lavoro pubblico e privato? Il Ministero del Lavoro (rispondendo all’interpello di Cgil, Cisl e Uil n. 25 del 22 luglio 2013) ha chiarito che possono essere i contratti collettivi di 2° livello a stabilire modalità di fruizione del congedo parentale a ore, i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.

Spetta dunque alle associazioni di categoria portare a termine la concertazione per applicare l’opzione, ma il confronto si è arenato sull’interpretazione dell’espressione “contrattazione collettiva di settore”: il settore inteso dal Legislatore si riferisce a quello specifico produttivo o a quello generico del lavoro pubblico e privato? Il Ministero del Lavoro (rispondendo all’interpello di Cgil, Cisl e Uil n. 25 del 22 luglio 2013) ha chiarito che possono essere i contratti collettivi di 2° livello a stabilire modalità di fruizione del congedo parentale a ore, i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.

Per i dipendenti pubblici, invece, l’applicazione del congedo parentale a ore sembra lontana a causa del blocco della contrattazione collettiva nazionale, a cui tocca l’onere di stabilire le modalità di applicazione della nuova formula di congedo. Con il comunicato dell’11 ottobre 2013, la Flc Cgil ha criticato il Dipartimento della Funzione Pubblica che, contraddicendo quanto espresso dal Ministero con il citato interpello, ha negato l’applicazione del congedo a ore spiegando che per la sua applicazione “l’amministrazione dovrà attendere il recepimento attraverso il contratto collettivo di comparto o la contrattazione quadro”, negando di fatto la possibilità offerta alla contrattazione collettiva secondaria dallo stesso ministero.

Durata del congedo
In base alla norma generale di cui sopra, i genitori lavoratori dipendenti possono assentarsi dal lavoro anche contemporaneamente se hanno un figlio fino a 8 anni (anche in affido o adottivo, e comunque fino al diciottesimo anno d’età). La madre fino a 6 mesi continuati o frazionati, il padre fino a 7 mesi. Per astensioni contemporanee, l’assenza complessiva non può superare gli 11 mesi, diversamente per ogni singolo genitore si può arrivare a 10 mesi, continuati o frazionati. Per i lavoratori dipendenti, è necessario avvisare il datore di lavoro 15 giorni prima del giorno in cui si richiede il congedo, precisandone la data di inizio e fine. Le lavoratrici autonome artigiane, commercianti, coltivatrici dirette, mezzadre, colone e imprenditrici agricole a titolo principale che siano anche madri naturali, possono astenersi dal lavoro per 3 mesi durante il primo anno di vita del figlio (art. 66 e ss. del D.Lgs. 151/2001). Parimenti lavoratrici e lavoratori parasubordinati, a patto che non siano titolari di pensione o iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie.

Indennità
L’indennità percepita durante il periodo di congedo è pari al 30% della retribuzione. I dipendenti possono ottenerla fino ai 3 anni del figlio e per un massimo di 6 mesi l’anno, complessivi per entrambi i genitori. Oltre i 6 mesi e fino agli 8 anni del figlio, si ha diritto all’indennità sono se il reddito annuo del genitore non sia per due volte e mezzo superiore al trattamento minimo di pensione nell’anno. Le lavoratrici autonome possono beneficiare di un’indennità pari al 30% della retribuzione convenzionale giornaliera fissata dalla legge. Le lavoratrici parasubordinate percepiscono una indennità pari al 30% del reddito percepito nei 12 mesi precedenti al congedo.

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